« Bisogna avere ancora il caos dentro di sé per generare una stella danzante » questa affermazione di Friedrich Nietzsche in “Così parlò Zarathustra” sintetizza alla perfezione lo stato d’animo dell’ambiente romanista antecedente alla sfida contro la Juventus di Sabato sera. Una settimana pesante in casa giallorossa, caratterizzante la marcia di avvicinamento alla delicata gara, al punto tale da render necessario l’intervento del Capitano, un Grande tra i grandi, autentico trascinatore, alla maniera del superuomo Nietszchano, possessore di una leadership mai ostentata se non in condizioni estreme. “Giù le mani dalla Mia, Nostra,Vostra Roma”. Parole importanti quelle lanciate attraverso il suo blog, con i tifosi chiamati a raccolta, rifuggendo, d’altra parte, ogni sterile polemica in merito ai fatti di Genova. Compresi i numerosi strascichi alimentati dalla stampa, circa eventuali rimproveri alla sua persona, in una situazione ampiamente degenerata per via dei risultati negativi.
Come spesso accade quando Totti parla, alle parole seguono i fatti. Ed allora ecco nel momento più difficile Francesco portare la squadra ad effettuare il riscaldamento sotto la Curva Sud, gesto furbo per molti, significativo per altri. Un tributo alla sua gente, una richiesta di sostegno alla quale è impossibile per il tifoso vero restare insensibile. La squadra che si fonde con la sua Curva ricavando da essa forza, coraggio, orgoglio e ostinazione, prerogative virtuose scevre da ogni eccesso – forse dovuto al culmine di due anni desolanti – patito nell’arco della complicata settimana.
In campo si vede la stella danzante di cui sopra. Ha dieci anni in più rispetto a tutti gli altri presenti ma sembra non sentirli ed anzi, sforna l’ennesima sontuosa prestazione: corre, attacca, difende suggerisce ed ispira. Francesco Totti incarna alla perfezione quelle qualità finemente descritte, ancora una volta da Nietzsche in un’altra opera, “Nascita della Tragedia”, all’interno della quale il grande filosofo contestualizza l’esistenza di un incontro tra due essenze, lo spirito Dionisiaco e quello Apollineo.
Il primo derivante dal culto del dio Dioniso in quanto “ebbrezza” rappresenta l’elemento della spontaneità, dell’istinto umano, l’impulso di una forza vitale che trova la sua manifestazione più compiuta nel carattere, nella determinazione contraddistinguente il numero dieci giallorosso. Queste doti interiori, qualità morali, resterebbero inespresse sul rettangolo verde se non supportate ed equilibrate dalla linearità dell’ Apollineo, ovvero l’armonia delle forme e del vivere, attraverso cui è possibile creare l’arte.
Come in ogni grande tragedia l’epilogo ha connotati indimenticabili: minuto 57, una punizione mal calciata da Pjanic genera una corta respinta. Il Capitano si trova in posizione di sparo con il pallone che per una volta gli viene incontro. Contrariamente a quanto questa stagione aveva abituato, la palla scorre radente in direzione dei suoi piedi, quasi a voler sancire un’opportunità seppur da una distanza considerevole per un normale interprete. Totti calcia in porta da venticinque metri. Un destro rabbioso, un calcio al susseguirsi delle polemiche. Una risposta veemente a tutte le critiche. Una poderosa bordata che, se scagliata da chi è abituato a scrivere poesia con i piedi si tramuta in un fendente, un tracciante, un pregiato ricamo, una pennellata d’autore, un capolavoro balistico. Insomma quell’incrocio tra il Dionisiaco delle emozioni, dell’istinto e l’Apollineo della tecnica, del movimento armonico che consuma la tragedia sportiva bianconera, lasciando luogo all’estasi catartica del popolo romanista. Per 9 lunghi anni si attendeva il momento di una gioia purificatrice, finalmente colta tra le mura amiche. Una dirompenza assoluta, 113 km orari che ripercorrono la storia di Francesco Totti e quindi quella della Roma, fatta di cadute rovinose, cocenti delusioni a cui fanno da contraltare momenti di esaltazione, entusiastiche performance, orgogliose risalite. Tratti di una romanità garantita da esponenti del calibro di De Rossi e Totti, ultimi baluardi di una appartenenza nel calcio del business a stelle e strisce. Buffon è trafitto, inerme dinanzi ad un tiro che Fabrizio Failla avrebbe apostrofato come “violenza pura”. La Sud esplode, producendosi in una esultanza gargantuesca, così come la Roma squadra, che sommerge il suo vegliardo condottiero, sempre in prima linea anche nei momenti più duri, quando la nave sembrava affondare contrariamente a nocchieri mal improvvisati.
Una esegesi calcistica, quella del Capitano, prelibata per i palati fini, determinante per sorseggiare il dolce, ambrato calice della vittoria. Un gusto intenso che, nel mezzo di una stagione mediocre, pervade comunque i sensi di ogni individuo di fede giallorossa, quasi disabituato a questo tipo di sensazione, ritrovata al cospetto della vecchia signora, rivale storicamente più acerrima . Ennesima risposta sul campo, semmai ve ne fosse riscontrato il bisogno, a coloro i quali sostenevano che giocasse troppo di prima o ancor più improbabilmente che non fosse mai decisivo.
“The king of Rome is not dead”. La splendida esclamazione del cronista di Al Jazeera, Richard Wittle dimostra che Totti ancora c’è, così come men che mai morirà la sua storia, quella di un audace condottiero che consegna agli annali del calcio un ulteriore epico gesto, in mezzo ad una letteratura di prodezze, per un amore dannatamente importante il cui imperituro ricordo è impreziosito da 224 perle, delle quali come sempre accade negli amori infiniti, l’ultima é sempre la più bella.
A cura di Danilo Sancamillo
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