sabato 11 maggio 2013

Tutti in piedi per "Sir" Alex, condottiero mancuniano che ha segnato un'epoca

"Sir"Alex Ferguson

Fermi tutti. Sir Alex si congeda. Uno dei personaggi più illustri della storia del calcio inglese e non solo, al termine di una carriera densa di soddisfazioni decide di andare in pensione. 

 Leggenda vivente del Manchester United - club che gli ha anche dedicato una statua, edificata proprio in quel teatro dei sogni, l’Old Trafford, sua seconda casa – l’allenatore scozzese, nato in quel di Glasgow nel 1941, dopo 27 anni in prima linea sempre sulla stessa panchina, record assoluto, lascia la guida dei Red Devils al netto di 38 trofei raggiunti, fra i quali spiccano senza dubbio le due Champions League, arrivando all’apice del trionfo nella stagione 1998-1999 anno della conquista del “treble”, ovvero vittoria in Campionato, Coppa nazionale e Champions League. Ancor più dei suoi trofei, ciò che rimane impresso nelle menti più accorte, è la maniera in cui sono maturate gran parte delle affermazioni dei diavoli rossi: Basti pensare al rocambolesco trionfo nella finale di Barcellona contro il Bayern per comprendere fino in fondo i crismi del personaggio Ferguson. Quanto più la squadra fosse vicino al baratro, tanto più emergeva la fermezza, il coraggio, la determinazione, la voglia di non arrendersi del demiurgo di Manchester: in tal senso i due gol realizzati nei minuti di recupero della finale di Coppa dei Campioni costituiscono l’emblema dell’emanazione ideologica di questo grande simbolo e condottiero, che aveva nei suoi 11 in campo una propaggine delle proprie qualità, della propria concezione di pensiero, nel calcio come nella vita. Infondere in tutti i calciatori avuti a disposizione nel tempo, un’atavica sete di vittoria unita all’umiltà di non sentirsi mai arrivati ed anzi lavorare sodo per migliorarsi ancora, è stato senza dubbio il suo più grande merito, in un elenco sterminato di finissime qualità. 


Il Dna che oggi contraddistingue lo United si condensa nella personalità e nell’aurea divina di Sir Alex Ferguson - pigmalione di una cultura – in grado di trasformare in 27 anni, il Manchester United da un buon club al migliore d’Inghilterra e per larghi tratti anche del mondo. La sua figura ha rivoluzionato il modo di concepire il ruolo dell’allenatore, avverando la chimera del management totale e di lungo, lunghissimo corso. 


IL SELEZIONATORE FERGUSON - Da un grande potere derivano grandi responsabilità alle quali il signore di Glasgow ha saputo assolvere pienamente: consulente di mercato, supervisore delle giovanili, grande comunicatore negli spogliatoi e con i media, infine ottimo allenatore. Uomo carismatico oltre che preparato, il segreto dei suoi successi risiede nell’attitudine alla trasmissione di tutti quei valori, non ultima la mentalità operaia, indotti nella multi variegata pletora di calciatori che si sono alternati nel corso dei tempi nel vestire la casacca dei Red Devils. Dal 6 Novembre 1986, data del suo insediamento sulla panchina del Manchester United, ad Old Trafford si sono avvicendati moltissimi campioni assemblati ad altrettanti gregari. Nella stessa squadra di Rooney giocava Park Ji Sung, vicino a Ferdinand giostrava O’Shea, Fletcher come spalla di Scholes. Tutti elementi selezionati personalmente da Ferguson, che hanno contribuito – fattore singolare – in egual maniera, agli innumerevoli successi raggiunti. La costruzione di un collettivo sopra ogni cosa, un gruppo nel quale il senso di appartenenza svolge un ruolo predominante, dove la puntualità dei compiti e la sincronia di movimenti trasfigura un corpo solo, in grado di adombrare, qualora fossero sussistite, le lacune individuali di alcuni interpreti. Molto spesso si è arrivati a pensare che non fossero certi calciatori a far grande il Manchester ma l’ambiente United a rendere grandissimi alcuni calciatori. Nel proseguo della propria carriera alcuni di essi, (Beckham compreso) non si sono confermati sui livelli espressi in maglia rossa. E’ il caso dei Calipso Boys Yorke e Cole perno principale del Manchester campione d’Europa: una coppia d’attacco perfetta, le cui caratteristiche venivano a dir poco esaltate nel sistema di gioco modellato dal tecnico scozzese, fedele sempre al 4-4-2 con l’apporto di qualche evoluzione per stare al passo con i tempi. Questi, una volta migrati altrove, hanno dimostrato di non possedere un valore assoluto così importante da fare la differenza, attestandosi come calciatori normalissimi. 


LA VECCHIA GUARDIA - Ovviamente a fare le fortune del Manchester ha concorso anche la scelta di elementi fuori dalla media, accuratamente scelti da Ferguson in prima persona il quale, con le sue intuizioni, è riuscito a portare nella grigia città britannica personaggi del calibro di Ryan Giggs: “Mi ricordo ancora la prima volta che lo vidi. Aveva 13 anni e galleggiava sul terreno come un cocker in cerca di un pezzo di carta argentata nel vento”. Ferguson lo volle in squadra quando aveva appena 14 anni e lo accolse in casa propria dopo esserlo andato a prelevare in Galles. Insieme iniziarono a costruire i successi dello United tanto che Giggs può vantare il medesimo palmares del suo allenatore. Alla formidabile ala gallese il tecnico scozzese ha affiancato altri grandi calciatori come Paul Scholes - richiamato addirittura l’anno scorso dopo il ritiro, perché c’era bisogno di lui in campo – Phil Neville ed il fratello Gary del quale disse: “Se fosse stato un centimetro più alto sarebbe stato il miglior centrale del Regno Unito. Suo padre è alto 1m88. Mi piacerebbe controllare il lattaio“, Ole-Gunnar Solskjaer, autore del gol nella finale contro il Bayern, abituato sempre a subentrare dalla panchina, Roy Keane e tanti altri ancora: campioni nella testa prima ancora che nei piedi, sempre portati a dare il massimo in allenamento come in partita, profondendo grandissima intensità per tutto l’arco dei 90 minuti perché il messaggio è abbastanza chiaro per tutti: a Manchester non si arriva mai secondi sul pallone. 


IL CARISMA - A questo mantra non sono sfuggiti neanche l’intemperante Cantona, il folle Nani ed i belli e bravi Ronaldo e Beckham ,calciatori particolarmente dotati sul lato tecnico oltre che dall’impatto mediatico alquanto rilevante. Il loro carattere è stato mitigato e contenuto dall’aurea tangibile del tecnico scozzese, abile nell’instillare anche nei calciatori di maggiore qualità la disponibilità al sacrificio, l’apporto quantitativo alla manovra: corsa, sudore e grinta, individuate dall’allenatore di Glasgow come quelle caratteristiche fondamentali per fare la differenza perché non si vincono 38 trofei soltanto in virtù di un tasso tecnico maggiore ma in campo è necessario mettere sempre quel qualcosa in più senza risparmiarsi mai se si vuol giocare a Manchester. 


Un allenatore stimatissimo ed apprezzato da tutti i suoi calciatori, in grado di farti lavorare sodo fino a far sputare sangue ma soprattutto di ricompensare i duri sforzi richiesti di giorno in giorno con il raggiungimento quasi puntuale dei massimi traguardi. Saper gestire l’estro e la sregolatezza di Eric Cantona del resto, non è dote comune. Ferguson non soltanto ha guadagnato il rispetto dell’estemporaneo calciatore transalpino ma ha anche ricavato il massimo dall’espressione del suo talento. Tornando a Cristiano Ronaldo, l’ambizioso figlio al prodigo portoghese dopo aver chiesto ed ottenuto la cessione al Real Madrid - a testimonianza di un altro assioma che vuole tutti utili a Manchester ma nessuno al di sopra del gruppo e della causa – non è riuscito ad ottenere i risultati di squadra raggiunti con i Red Devils che invece hanno continuato a vincere anche senza di lui. Il numero 7 lusitano, plasmato da Ferguson fin dalla giovane età quando giunse non ancora maggiorenne a Manchester per poi vincere qualche anno più tardi il pallone d’oro, non ha mai fatto mistero di sentire la mancanza del tecnico scozzese, considerato un secondo padre. Oggi, se potesse, farebbe carte false per tornare all’ovile. 


RAPPORTO CON BECKHAM - Per quanto riguarda lo Space Boy, anche lui salpato verso i più ammalianti lidi madrileni, con scarso successo, l’aneddoto principale risale senza dubbio alla sconfitta in FA Cup contro l’Arsenal, quando un inferocito Ferguson calciando uno scarpino lo colpi al sopracciglio destro, causando al biondo calciatore una ferita suturata con tre punti. ”E’ stato solo un incidente. Se ci avessi provato 100 o un milione di volte non sarebbe mai potuto succedere ancora. Forse avrei dovuto continuare a giocare”. Non molti sanno però della furia riversata dall’allenatore scozzese sull’ex capitano dell’Inghilterra quando questi saltò un allenamento per assistere il figlio Brooklyn mentre sua moglie era alla settimana della moda di Londra. Un’assenza che costò a Beckham, l’esclusione dalla seguente partita di campionato. Una perenne insoddisfazione per la sconfitta, la gran voglia di essere sempre in competizione, mai domo nè tanto meno sazio, una dottrina propria di chi ha gli attributi per essere considerato il Manager di maggior successo nella storia del calcio inglese, innalzando la sua figura sull’Olimpo dei personaggi più influenti nell’universo calcistico, qualcosa di inarrivabile ed inimmaginabile, senza precedenti. Questo è Ferguson.


 Ora l’ultima battaglia del 71 enne che ha rappresentato un’epoca, sarà nella gara contro il West Bromwich Albion nella quale si siederà in panchina per la millecinquecentesima volta in rappresentanza dei Red Devils. Scherzo del destino Albione è l’antico nome della Gran Bretagna usato in maniera retorica in riferimento a tutto il Regno Unito. L’etimo della parola è riconducibile al linguaggio gaelico Albio, con cui nei tempi antichi veniva chiamata la Scozia (Alba), sua terra natia. Già Alba, perché per lui non si tratta di tramonto, dopo tutte queste battaglie – nella maggior parte delle quali il condottiero mancuniano ha gustato l’ambrato e dolce calice della vittoria – giungerà il riposo di un guerriero che legherà la sua immagine ancora più inestricabilmente al club d’appartenenza, divenendone l’ambasciatore per il mondo. Dopo 1500 battaglie, vissute tutte con la massima intensità, è giunto il momento per lui di farsi da parte per entrare nell’eternità. 


Il nome di Sir Alex e con esso le epiche gesta, resteranno indelebili nella storia sportiva consegnando all’immortalità il glorioso condottiero. Un vuoto incolmabile affligge i cuori di tutti gli amanti di questo sport e più in generale di quei valori sani che lo sport trasmette. Il sentimento comune è espresso in poche parole, le stesse pronunciate a caldo da Ferguson quel mercoledi 26 maggio 1999: “Non ci credo, non ci credo. Il Calcio. Sia dannato”


A cura di Danilo Sancamillo 

Twitter: @DSancamillo

mercoledì 8 maggio 2013

Milivojevic qualità e quantità in mediana per la Stella Rossa


Nome completo: Luka Milivojevic (Лукa Mиливojeвић) 

Data di nascita: 07.04.1991 

Luogo di nascita: Kragujevac 

Età: 21 Altezza: 1,82 Nazionalità: Serbia 

Ruolo: Centrocampista Centrale Piede: destro 

Numero di maglia: 19 

Valore di mercato: 1.600.000 € 

Luka Milivojevic é un calciatore serbo, centrocampista della Stella Rossa di Belgrado, un club che storicamente ha diffuso nel calcio moltissimi talenti in particolar modo nella linea mediana, basti pensare a Vladimir Jugovic o più recentemente a Dejan Stankovic. Milivojevic pur essendo molto giovane sta mostrando tutto il suo talento, portandosi all’attenzione dell’attuale tecnico della nazionale Sinisa Mihajlovic anche lui cresciuto nella Stella Rossa, che ha deciso di convocarlo nella nazionale maggiore, un punto di arrivo per questo calciatore dopo aver svolto tutta la trafila nelle nazionali giovanili. Il ragazzo benché molto giovane ha dimostrato di avere personalità sfoderando una grande prestazione nel sentitissimo derby con gli acerrimi rivali del Partizan, andando anche in gol con un preciso destro dalla distanza. 

CARATTERISTICHE TECNICHE - Milivojevic é un classe ’91 dalla corporatura abbastanza robusta, 182cm per 78 chili di peso. Nato trequartista, come spesso accade ai giovani nel momento di effettuare il salto di qualità dalle giovanili alla prima squadra, ha retrocesso il proprio raggio di azione nella linea mediana per l’abilità in entrambe le fasi, tanto da venir spesso utilizzato anche da mediano. Il talento di Kragujevac, oltre ad un piede abbastanza sensibile, possiede un grande dinamismo che ne agevola le fluttuazioni, in fase di appoggio per la manovra offensiva, ed in quella di ripiego per quanto concerne i momenti di non possesso palla. La posizione perfetta per esprimere tutto il suo potenziale é quella dicentrocampista puro, nella quale riesce a far valere sia la stazza in fase di interdizione che la qualità tecnica nell’impostazione, fornendo un grande contributo anche nei movimenti senza palla e soprattutto negli inserimenti, spesso letali per gli avversari. Destro naturale, dispone di un gran tiro dalla distanza, grazie al quale é riuscito a siglare alcune reti d’ autore,5 ques’tanno le reti all’ attivo. Sebbene ancora molto giovane ed a tratti discontinuo come gran parte dei calciatori provenienti dai balcani, il ragazzo ha mostrato interessantissimi spunti, evidenziando tutte quelle peculiarità che ricalcano alla perfezione l’identikit del centrocampista moderno in grado di esprimersi brillantemente in ambedue le fasi di gioco. 

CARRIERA - Luka Milivojevic é cresciuto nel settore giovanile del Rad Belgrado, società nella quale ha debuttato nel corso della stagione 2007/2008 nella sfida persa per 2-1 contro il Cuckaricki. L’anno seguente il tecnico Marko Nikolic, stregato dalle sue qualità, decide di lanciarlo nella posizione di centrocampista. Il ragazzo racimola 9 presenze in Super Liga con 2 cartellini gialli. Nello stesso anno disputa 2 incontri con la selezione Under 19 serba. Una volta presa confidenza con la nuova dimensione professionale, Milivojevic nella stagione 2010/2011 diviene titolare inamovibile collezionando 26 presenze impreziosite da 5 assist a cui si sommano altri due gettoni, stavolta nell’Under 21 del suo paese. L’anno della consacrazione é il 2011/2012 nel quale il talento diKragujevac realizza la prima rete nel massimo campionato, con una doppietta nella sfida contro il Metalac, prima con un destro dalla distanza e poi su punizione a conferma delle pregevoli doti balistiche. Le sue qualità non sfuggono agli emissari della Stella Rossa, uno dei club più titolati del paese, che decidono di assicurarsene le prestazioni nella sessione invernale di mercato corrispondendo al club di appartenenza una somma di 708.000 euro. Nella Stella Rossa il tecnico decide spesso di impiegarlo in posizione di vertice arretrato, come costruttore di gioco. Il ragazzo risponde con 3 assist ed una rete, ancora contro il Metalac per il quale costituisce un vero incubo. Nel complesso mette insieme 24 presenze, 13 con il Rad e 11 con la Stella Rossa, condite da 4 reti e 3 assist in campionato, delle quali avendo l’occasione di calcare anche il palcoscenico dell’Europa League dove scende in campo 4 volte. Divenuto uno dei perni della sua nazionale under 21 Il centrocampista serbo disputa 5 partite di qualificazione agli Europei di categoria andando in gol nella gara d’esordio contro l’Irlanda del Nord. Nella stagione in corso Il numero 19 biancorosso ha totalizzato 15 presenze in campionato mettendo a segno ben 5 reti e dispensando 3 assist per i compagni, 5 in Europa League al netto di un assist. La continuità di impiego e l’alto rendimento dimostrato sono valsi al ventunenne la prima convocazione nella nazionale maggiore, nell’amichevole con il Cile. Il bilancio complessivo della sua carriera consta di 103 presenze,contraddistinte da 10 reti e 9 assist. In ambito disciplinare l’irruenza l’ha spesso portato ad essere sanzionato con il giallo, 24 i cartellini accumulati con 3 espulsioni per somma di gialli ma nessuna per rosso diretto. 

VALUTAZIONE - Il calciatore sta attraversando un periodo di crescita costante, irrobustendo il proprio curriculum con diverse apparizioni nella vetrina Europea. Ad un anno dal suo acquisto il suo valore si è più che raddoppiato configurandosi attualmente intorno ad 1,6 milioni di euro, una cifra che presto lieviterà sensibilmente, in quanto è plausibile che i vertici del club serbo non intendano privarsi di un simile prospetto, attendendone la maturazione al fine di poter ricavare il massimo da una sua cessione. In questo senso sarà indicativo il rinnovo del contratto, in scadenza nel giugno del 2015, quindi fra poco meno di due anni, che certamente verrà proposto all’entourage del calciatore, assistito da Ranko Stojic( procuratore tra gli altri del brasiliano Cleo), con l’obiettivo di blindarlo e di far maturare al ragazzo la necessaria esperienza per compiere il salto di qualità in un campionato di prima fascia. 

A cura di Danilo Sancamillo 

Twitter: @DSancamillo

sabato 4 maggio 2013

La rinascita del calcio tedesco: un progetto virtuoso, un modello da imitare


E’ sentimento comune che il calcio offra uno spaccato della società civile. In effetti così come nella politica, anche nell’universo calcistico si staglia sullo scenario europeo la figura della Germania, paradigma di riferimento da ammirare ed inseguire.
L’esito delle semifinali di Champions League ha ridefinito pesantemente le gerarchie, affermando la superiorità teutonica figlia di una gestione virtuosa e ben programmata nei minimi dettagli. Dopo il declino inglese, è la volta della Spagna finora salvata dalle performance di due squadroni d’eccezione (e voci fuori dal coro) come Barcellona e Real Madrid, letteralmente asfaltati dai panzer tedeschi in un mix di tecnica, organizzazione tattica e prestanza atletica, formidabili qualità ascrivibili ad una concezione lungimirante e dettagliata, quindi affatto casuale.

LE RADICI DELLA RINASCITA – Il verdetto amaro per i colori iberici sancisce una supremazia impressionante di matrice ideologica prima ancora che economica in un paese dove all’investimento sconsiderato di capitali in grado di garantire nell’immediato un beneficio aleatorio si è preferito una strada più lunga e tortuosa ma certamente densa di soddisfazioni durature. Il calcio tedesco fino a 10 anni fa sull’orlo del baratro, alle prese con risultati altamente deludenti, con un’età media assai elevata ed un tasso tecnico deficitario ha saputo reinventarsi nel tempo. Ha imparato dalle difficoltà a fare ammenda per poi affidarsi, come in politica, alle capacità e responsabilità gestionali di una classe dirigente con idee nuove, supportate dalla giusta dose di investimenti all’interno di un contesto favorito dalla semplicità delle istituzioni. Simbolo di questa rinascita è il Borussia Dortmund ancor più del Bayern che pur potendo contare su una solidità economica diversa ha perseguito la stessa strada del club della Westfalia. I gialloneri, sprofondati in crisi economica nel 2002, attraverso un’attenta gestione delle risorse, al lavoro degli osservatori e dello staff del settore giovanile, sono riusciti a risorgere nel giro di 9 anni passando per qualche sacrificio illustre come la vendita dell’allora Westfalenstadion, oggi Signal Iduna Park e l’istituzione di un tetto salariale. La costruzione certosina di una consapevolezza ed un senso di appartenenza secondo cui chi viene al Borussia non si sente di passaggio ma parte integrante di un progetto ambizioso fondato su molti giovani e qualche senatore di esperienza si deve a Jurgen Klopp e ad una mentalità tipicamente tedesca. Per il resto osservare tutti i calciatori – tra cui i partenti a fine stagione Gotze e Lewandowski per nulla distratti dal futuro – seduti a fine partita per gustarsi i festeggiamenti della Sudtribune (24.000 posti) è senza dubbio il successo più grande, sinonimo di una perfetta integrazione fra Società, allenatore, parco giocatori e tifo in un connubio simbiotico che esibisce il meglio di sé. Per aspera ad astra.

PROGETTUALITA’ E GIOVINEZZA - Le radici di questo impressionante successo, ottenuto attraverso la prestazione collettiva, di singoli eccellenti al servizio di un orchestra perfettamente guidata dai maestri Heynckes e Klopp – sintesi della tradizione e dell’innovazione, sapientemente coniugate secondo i canoni moderni – sono state gettate dieci anni orsono. Al tempo, il fallimento del sistema calcio tedesco, ridicolizzato nelle competizioni europee per club e molto spesso anche in quelle per selezioni nazionali, ha dato l’impulso al dialogo con le istituzioni, tradotto nella costruzione di impianti all’avanguardia, accortezza nell’utilizzo delle risorse finanziarie, puntando sui prodotti di un settore giovanile in grado, nei recenti anni, di sfornare talenti a profusione del calibro di Gotze, Gundogan, Kroos, Muller Reus,Ter Stegen, Hermann, Holtby,Draxler, Ozil; si potrebbe continuare all’infinito. Ragazzi giovani, motivati ma incardinati in un sistema dove il singolo non è mai al di sopra del collettivo, che assieme alla stabilità di società,esempio di coesione, svolge il ruolo di educatore, trasmettendo un nucleo di valori che concorrono alla formazione ed alla consapevolezza di questi nuovi enfant prodige, i cui comportamenti non risultano essere mai sopra le righe(contrariamente a quelli di casa nostra, vedi Balotelli) irreggimentati nel rispetto delle regole e dei compagni sia dentro che fuori dal campo. Insomma alla freschezza e all’ardore giovanile si unisce una profonda tradizione e senso di maturità, evidente nello stile di gioco dove a colpi di classe si alternano corsa in copertura e sacrificio a tutto campo. Una mentalità operaia unita all’organizzazione capillare, prerogative del nuovo calcio totale stile Germania. Dunque le due serate di Champions hanno fornito una lezione non solo di calcio ma soprattutto un modello da prendere come esempio da parte di tutti gli altri facenti parte del sistema calcistico ed in particolare da parte di quei signori che tengono in ostaggio il calcio italiano. Ab inopia ad virtutem obsepta est via

LA POVERA ITALIA - In relazione al Belpaese sono davvero molteplici le differenze in un confronto che risulta a dir poco impietoso. L’Italia da 15 anni a questa parte ha denotato poca lungimiranza risultando inesorabilmente ancora intrappolata in una pesante burocrazia, caratterizzata da interminabili tempistiche per consentire il rinnovamento di un impiantistica antidiluviana come dimostrano le difficoltà per ottenere il permesso al posizionamento della prima agognata pietra di un nuovo stadio. Peraltro il calcio italiano resta prigioniero degli interessi di quei pochi che in politica come nel calcio perseverano nella coltivazione del proprio, piccolo, orto foriero di effimere soddisfazioni al medievale manierismo delle Signorie(e certamente di introiti economici rilevanti quel tanto che basta a foraggiarne la continuazione del meccanismo ed il mantenimento dello stesso). Proprio come nell’assetto geopolitico quattrocentesco, nel nostro calcio regna la frammentazione ed il potere esecutivo, di fatto, non appartiene più alle istituzioni la cui sopravvivenza spesso si limita a ratificare le decisioni del Signorotto sulla falsariga di quanto avveniva nei comuni medievali. Un conservatorismo elitario, deleterio per la crescita del movimento calcistico italiano che si risolve in un sistema a dir poco vetusto ed anacronistico, il quale, assieme a calciopoli ed al calcioscommesse, ha contribuito progressivamente a depauperare il calcio italiano producendo una vera e propria diaspora dei migliori talenti, che se un tempo gareggiavano per venire nella penisola oggi migrano altrove portando il proprio patrimonio tecnico in altri contesti più sani.
L’inversione di tendenza del movimento calcistico tedesco sospinto dall’esigenza di far fronte al fallimento con un impegno serio verso il cambiamento, corroborato da investimenti oculati e ben ponderati nel corso degli anni, ha consentito la scalata alla vetta dell’Olimpo del calcio, partendo, ironia della sorte, da una posizione di netta inferiorità rispetto al calcio italiano, adagiato sul mantenimento dello status quo e surclassato anno dopo anno, fino alla perdita del quarto posto Champions, indice dello stato di salute dei campionati europei .
Ne deriva la necessità di ordine e stabilità sapientemente mescidati con investimenti coscienziosi ed una programmazione responsabile emergenti dall’affermazione teutonica. Nel nostro paese ad oggi non esiste nulla di tutto ciò ed anzi si fatica addirittura nell’organizzare eventi quali una finale di Coppa Italia, emblema di manifesta incapacità di un movimento sovrainteso dai soliti membri che nel tempo lo hanno portato al degrado. Occorre dunque prendere esempio dalla Germania ripetutamente sconfitta dall’orgoglio italiano nei tempi passati, per porre in essere una fiera risalita oppure sprofondare nel baratro dell’anonimato assieme agli scandali di casa nostra. Tertium non datur.

A cura di Danilo Sancamillo

Twitter: @DSancamillo

Luciano Vietto, la perla dell'Academia


Nome completo: Luciano Darío Vietto
Data di nascita: 05.12.1993
Luogo di nascita: Balnearía
Età: 18
Altezza: 1,73
Nazionalità:  Argentina
Piede: Destro
Ruolo: Trequartista – Attaccante
Valore di mercato: 5.000.000 €
Numero di maglia: 36

Luciano Darío Vietto è un giovane attaccante argentino che milita nel Racing club di Avellaneda, e che sta ben facendo nella massima divisione argenitna. Soprannominato in patria el Chico, il ragazzo per il suo modo di giocare è stato accostato a Radamel Falcao, centravanti dell’Atletico Madrid. Al di là dell’improbabile paragone, questo sottolinea l’interpretazione del ruolo da vero centravanti moderno.
CARATTERISTICHE - Vietto ha un fisico piuttosto longilineo 173 centimetri di altezza per 68 Kg di peso. Nato trequartista, ha spostato il suo raggio d’azione qualche metro più avanti risultando essere un’ottima seconda punta che fa dell’agilità una delle sue qualità migliori. Grande dinamismo, “el chico” è molto bravo nel dettare il passaggio, facendo tanto movimento senza palla, qualità che sommata ad una buonissima tecnica, rende questo ragazzo rispondente al profilo del tipico attaccante moderno. La spiccata visione di gioco posseduta dal giovane argentino ne suggerisce l’impiego anche sulla trequarti campo, posizione dalla quale riesce a vedere comunque la porta poiché unisce alla precisione, la potenza nel tiro dalla distanza. A dispetto della giovane età, il ragazzo, classe ’93, è in rampa di lancio nella stagione in corso, assurgendo a pedina fondamentale per il tecnico dell’Academia Basile che vede in lui  una seconda punta perfettamente incardinata nel suo impianto di gioco, un 4-4-2 in linea. Vietto dimostra di sapersi muovere alla perfezione all’interno del sistema di gioco progettato dal suo allenatore, aprendo varchi importanti per l’inserimento degli esterni di attacco, attraverso la grande mobilità esercitata, divenendo peraltro decisivo con i suoi gol, altra prerogativa fondamentale di questo giovane attaccante.
CARRIERA – Luciano Vietto inizia la sua carriera calcistica militando nell’Independiente de Balnearia, squadra della sua città, per poi essere notato dai talent scout del Racing Club de Avellaneda nel 2010. Il suo esordio nella massima divisione argentina avviene l’anno seguente nella gara contro il Lanus. Nel 2011 raccoglie 3 presenze. Alfio Basile si innamora letteralmente del ragazzo così decide di lanciarlo definitivamente nell’attuale stagione: Vietto non delude, ed anzi nella sua terza apparizione in stagione, il 4 Settembre di quest’anno, realizza una tripletta che stende il San Martin de San Juan sciorinando una grande varietà del suo repertorio tecnico, con una rete dalla distanza, una di testa ed uno di sinistro. Realizza la sua prima tripletta il 4 settembre, durante la partita di campionato con il San Martín all’età di 18 anni ,8 mesi e 30 giorni venendo premiato come “hombre del partido”.In questa stagione ha disputato 8 incontri fin ora mettendo a segno 4 reti. Attualmente il ragazzo è stato inserito nella lista per il Sudamericano Under 20 che si disputerà nel suo paese a partire dal 9 Gennaio.
VALUTAZIONE – Il ragazzo non ha una valutazione elevata, anche perché si è affacciato da pochi mesi su un palcoscenico di primo piano come quello della Primera Division argentina. Il Liverpool e la Juventus lo stanno seguendo con i Reds che secondo il Daily Mail avrebbero offerto al Racing una cifra intorno ai 4 milioni di euro, tanti in considerazione del valore attuale di un ragazzo, proveniente dalla primavera, pochi per quanto riguarda le qualità fatte intravedere fin ora da Vietto, che il Racing non ha intenzione di cedere, almeno nel breve periodo, per non perdere l’occasione di farlo maturare, per poi chiedere anche più del doppio di quanto offerto dal Liverpool, qualora il ragazzo riuscisse ad esprimere con continuità tutto il suo talento, cosa che per altro sta facendo a sprazzi, deliziando il pubblico del Cilindro di Avellaneda che ripone in lui grandi speranze.



A cura di Danilo Sancamillo

Così parlò Francesco Totti

« Bisogna avere ancora il caos dentro di sé per generare una stella danzante » questa affermazione di Friedrich Nietzsche in “Così parlò Zarathustra” sintetizza alla perfezione lo stato d’animo dell’ambiente romanista antecedente alla sfida contro la Juventus di Sabato sera. Una settimana pesante in casa giallorossa, caratterizzante la marcia di avvicinamento alla delicata gara, al punto tale da render necessario l’intervento del Capitano, un Grande tra i grandi, autentico trascinatore, alla maniera del superuomo Nietszchano, possessore di una leadership mai ostentata se non in condizioni estreme. “Giù le mani dalla Mia, Nostra,Vostra Roma”. Parole importanti quelle lanciate attraverso il suo blog, con i tifosi chiamati a raccolta, rifuggendo, d’altra parte, ogni sterile polemica in merito ai fatti di Genova. Compresi i numerosi strascichi alimentati dalla stampa, circa eventuali rimproveri alla sua persona, in una situazione ampiamente degenerata per via dei risultati negativi.
Come spesso accade quando Totti parla, alle parole seguono i fatti. Ed allora ecco nel momento più difficile Francesco portare la squadra ad effettuare il riscaldamento sotto la Curva Sud, gesto furbo per molti, significativo per altri. Un tributo alla sua gente, una richiesta di sostegno alla quale è impossibile per il tifoso vero restare insensibile. La squadra che si fonde con la sua Curva ricavando da essa forza, coraggio, orgoglio e ostinazione, prerogative virtuose scevre da ogni eccesso – forse dovuto al culmine di due anni desolanti – patito nell’arco della complicata settimana.
In campo si vede la stella danzante di cui sopra. Ha dieci anni in più rispetto a tutti gli altri presenti ma sembra non sentirli ed anzi, sforna l’ennesima sontuosa prestazione: corre, attacca, difende suggerisce ed ispira. Francesco Totti incarna alla perfezione quelle qualità finemente descritte, ancora una volta da  Nietzsche in un’altra opera, “Nascita della Tragedia”, all’interno della quale il grande filosofo contestualizza l’esistenza di un incontro tra due essenze, lo spirito Dionisiaco e quello Apollineo.
Il primo derivante dal culto del dio Dioniso in quanto “ebbrezza” rappresenta l’elemento della spontaneità, dell’istinto umano, l’impulso di una forza vitale che trova la sua manifestazione più compiuta nel carattere, nella determinazione contraddistinguente il numero dieci giallorosso. Queste doti interiori, qualità morali, resterebbero inespresse sul rettangolo verde se non supportate ed equilibrate dalla linearità dell’ Apollineo, ovvero l’armonia delle forme e del vivere, attraverso cui è possibile creare l’arte.
Come in ogni grande tragedia l’epilogo ha connotati indimenticabili: minuto 57, una punizione mal calciata da Pjanic genera una corta respinta. Il Capitano si trova in posizione di sparo con il pallone che per una volta gli viene incontro. Contrariamente a quanto questa stagione aveva abituato, la palla scorre radente in direzione dei suoi piedi, quasi a voler sancire un’opportunità seppur da una distanza considerevole per un normale interprete. Totti calcia in porta da venticinque metri. Un destro rabbioso, un calcio al susseguirsi delle polemiche. Una risposta veemente a tutte le critiche. Una poderosa bordata che, se scagliata da chi è abituato a scrivere poesia con i piedi si tramuta in un fendente, un tracciante, un pregiato ricamo, una pennellata d’autore, un capolavoro balistico. Insomma  quell’incrocio tra il Dionisiaco delle emozioni, dell’istinto e l’Apollineo della tecnica, del movimento armonico che consuma la tragedia sportiva bianconera, lasciando luogo all’estasi catartica del popolo romanista. Per 9 lunghi anni si attendeva il momento di una gioia purificatrice, finalmente colta tra le mura amiche. Una dirompenza assoluta, 113 km orari che ripercorrono la storia di Francesco Totti e quindi quella della Roma, fatta di cadute rovinose, cocenti delusioni a cui fanno da contraltare momenti di esaltazione, entusiastiche performance, orgogliose risalite. Tratti di una romanità garantita da esponenti del calibro di De Rossi e Totti, ultimi baluardi di una appartenenza nel calcio del business a stelle e strisce. Buffon è trafitto, inerme dinanzi ad un tiro che Fabrizio Failla avrebbe apostrofato come “violenza pura”. La Sud esplode, producendosi in una esultanza gargantuesca, così come la Roma squadra, che sommerge il suo vegliardo condottiero, sempre in prima linea anche nei momenti più duri, quando la nave sembrava affondare contrariamente a nocchieri mal improvvisati.
Una esegesi calcistica, quella del Capitano, prelibata per i palati fini, determinante per sorseggiare il dolce, ambrato calice della vittoria. Un gusto intenso che, nel mezzo di una stagione mediocre, pervade comunque i sensi di ogni individuo di fede giallorossa, quasi disabituato a questo tipo di sensazione, ritrovata al cospetto della vecchia signora, rivale storicamente più acerrima . Ennesima risposta sul campo, semmai ve ne fosse riscontrato il bisogno, a coloro i quali sostenevano che giocasse troppo di prima o ancor più improbabilmente che non fosse mai decisivo.
“The king of Rome is not dead”. La splendida esclamazione del cronista di Al Jazeera, Richard Wittle dimostra che Totti ancora c’è, così come men che mai morirà la sua storia, quella di un audace condottiero che consegna agli annali del calcio un ulteriore epico gesto, in mezzo ad una letteratura di prodezze, per un amore dannatamente importante il cui imperituro ricordo è impreziosito da 224 perle, delle quali come sempre accade negli amori infiniti, l’ultima é sempre la più bella.

A cura di Danilo Sancamillo